Torna l’attesa rubrica mensile #cambiodimarcia, dedicata alle storie di successo di donne che hanno segnato la storia dell’automobile. Oggi abbiamo il piacere di intervistare Renata Nosetto, storica figura nel mondo della Comunicazione del Motorsport e moglie di Roberto Nosetto, ingegnere e direttore sportivo della Ferrari nel 1977 e direttore dell’Autodromo di Imola. Nel corso di questa intervista, Renata racconterà la sua storia, le sue battaglie e le sue riflessioni sulle dinamiche di genere nel settore automotive.
Intervista a cura di Luca Greco (SEO Copywriter di Synesthesia)
Renata, hai vissuto una vita ricca di emozioni e adrenalina. La Formula 1, la Ferrari, l’Autodromo di Imola. Che ricordi hai di quegli anni?
“Sono ricordi bellissimi. Per darti l’idea di che cosa tutto questo ha significato per me vorrei raccontarti un episodio che è accaduto recentemente. Lo scorso giorno, tornando a casa con la macchina, ho trovato il traffico intasato. Inizialmente mi sono arrabbiata, poi ho capito che davanti alla coda c’era un grande camion della Mclaren che bloccava tutto e che stava andando all’autodromo. Mi è venuto un groppo in gola. Non pensavo di provare ancora una così grande emozione. In quel momento avrei voluto tanto seguire quel camion e magari fargli strada, come ai tempi degli anni ‘80. Alla fine lui ha girato a sinistra e io a destra, ma è rimasta quella sensazione. Questo piccolo episodio ti fa capire che cosa hanno rappresentato per me quegli anni, la Formula 1 e Imola.
Erano anni di passione pura, di adrenalina, ma anche di grandissima umanità e collaborazione tra tutte le persone che venivano coinvolte: dai meccanici ai team manager e ai piloti. C’era una bella complicità con i piloti, che venivano spesso nei nostri uffici, soprattutto per fare delle telefonate.
Quando scendevano dalla macchina tornavano delle persone normali. Ricordo ancora un curioso episodio che riguarda Villeneuve e Arnoux. Entrambi erano grandi amici, ma quel giorno litigarono per una nostra segretaria che aveva dato appuntamento a tutti e due contemporaneamente. In quel momento sembrava come quando si sfidano in pista, fino all’ultima curva, ruota a ruota. Alla fine si misero a ridere come due bambini e diedero buca alla segretaria. Questo è il lato umano di queste grandi figure che facevano cose impossibili in gara, sfidando le leggi della natura”.
La tua vita nel mondo del motorsport è stata inesorabilmente intrecciata con quella di tuo marito Roberto Nosetto, storico direttore sportivo della Ferrari. A lui hai dedicato un tuo libro: “Giù la visiera e piede a tavoletta. La vita di Roberto Nosetto, il sogno Ferrari, la Formula 1 e il cammino verso il destino”. Come vi siete conosciuti? Qual è il tuo primo ricordo di quell’incontro?
“Noi ci siamo messi insieme il 31 dicembre del 1961. Avevamo 15, 16 anni e ci siamo conosciuti in palestra. In quegli anni le donne stavano iniziando a praticare il judo, fino a quel momento uno sport completamente maschile. C’erano delle regole ferree in palestra. Le donne, per esempio, non potevano assistere agli allenamenti degli uomini e viceversa. Una volta, io e alcune mie amiche abbiamo visto passare questo bel ragazzo. Facevamo di tutto per vederlo. Ricordo che ci siamo pure prese delle grosse sgridate dagli allenatori.
Alla fine, però, sono riuscita a chiedergli un appuntamento. Ho preso io l’iniziativa, invitandolo alla festa dell’ultimo dell’anno. Da quel 31 dicembre non ci siamo più lasciati, anche se in realtà ho dovuto insistere un po’. Lui aveva già scritto una lettera a Enzo Ferrari nella quale diceva con grande convinzione di voler fare l’ingegnere. Io per lui ero quasi una distrazione, gli portavo via del tempo. Ma io non ho mollato, fino a quando ha capitolato e mi ha detto: “non chiedermi , però, mai di scegliere tra te e la Ferrari perché mi faresti soffrire” ed io non gli ho mai fatto questa domanda”.
Come avete conciliato vita professionale a quella lavorativa?
“Dopo la scomparsa improvvisa di suo padre abbiamo deciso di sposarci. Roberto si è laureato e ha iniziato subito la sua carriera. Dopo poco, però, abbiamo realizzato che sarebbe stato un matrimonio complicato perché lui faceva circa 200 date all’anno di trasferte. Io all’epoca mi ero diplomata come odontotecnico e avevo già un laboratorio. Ho mollato tutto e abbiamo deciso di non avere figli di comune accordo.
Ho, così, iniziato anch’io questa avventura nel mondo dei motori facendo la gavetta, partendo da zero. Durante il periodo della Ferrari, per esempio, non c’era l’hospitality e ricordo che mi occupavo io di tutto. Pian piano sono cresciuta. Io e lui abbiamo sempre lavorato insieme, dove c’era lui c’ero sempre anch’io”.
Hai lavorato per tanti anni nel mondo della Comunicazione del Motorsport, come press officer di F1, SBK e MotoGP. Ricordi un’esperienza che ritieni abbia avuto un impatto fondamentale sulla tua crescita professionale? Che tipo di insegnamenti hai tratto da questa esperienza?
“All’epoca le donne che lavoravano in Formula 1 erano più che altro le cosiddette “ombrelline”, cioè delle ragazze che stavano lì. Non c’erano ingegneri donna. Era quindi molto difficile inserirsi in quell’ambiente.
Quando ero capo ufficio stampa della Federazione del Campionato di Formula 1, ricordo che dovevo far capire che il mio ruolo non consisteva nel portare il caffè la mattina e seguire il presidente in tutte le sue attività. Il mio compito era gestire una sala stampa con 700 giornalisti che provenivano da ogni parte del mondo. Queste erano le difficoltà che incontravano tutte le donne che riuscivano a inserirsi in questo ambiente. Bisognava sempre essere “astute”, far finta cioè di non esserci o esserci solo marginalmente e occuparsi contemporaneamente di più ruoli”.
Secondo te oggi è cambiato il ruolo delle donne nel mondo delle corse?
“Io direi che sta cambiando. Oggi ai box vedi anche qualche donna ingegnere. La donna oggi ha ancora tante battaglie da vincere. È una questione di diritti, una questione culturale”.
Quali consigli daresti alle giovani donne che aspirano a seguire le tue orme?
“Le donne non devono dimostrare nulla e secondo me non devono ambire a raggiungere gli stessi livelli dell’uomo. Sono le passioni che ci spingono a diventare ciò che siamo. Io ammiro le donne che lottano per le proprie passioni, per quello che amano. Non si deve scegliere di fare un lavoro perché questo lavoro ti porta a ad avere più voce in capitolo. È la passione che ti guida a raggiungere i tuoi obiettivi”.
Che cosa pensi dell’iniziativa di AWA (Automotive Women Association)?
“Meno male che è arrivata! Finora io ho visto tante associazioni che in realtà erano dei club. AWA ha uno scopo. In questa associazione ho trovato qualcosa di diverso, quella passione di cui parlavamo prima. La passione di Monica Zanetti e Laura Tancredi e di quelli che si stanno pian piano avvicinando. Bisogna andare avanti con dei programmi e la consapevolezza che non si rovescia il mondo in un giorno. Le premesse ci sono tutte. Ci sono dei progetti molto ambiziosi. Ci vorrà un po’ di tempo, ma sono convinta che ce la faremo”.