Come si diventa PR e Marketing Manager nel motorsport? Intervista a Carla Santandrea

Dal Paddock alla Factory Experience: il viaggio di Carla Santandrea nel mondo del Motorsport

Torna l’attesa rubrica mensile #cambiodimarcia, dedicata alle storie di successo di donne che hanno lasciato un segno nella storia dell’automobile. Questa volta abbiamo avuto il privilegio di intervistare Carla Santandrea, figura storica nel mondo della Formula 1 e già responsabile dell’Hospitality Ferrari durante i cinque titoli mondiali di Michael Schumacher. Carla ci ha raccontato i momenti più significativi di quegli anni straordinari, l’evoluzione del suo percorso professionale, la parentesi in Lamborghini, l’importante cambiamento del ruolo delle donne nel motorsport e la sua visione sul futuro di un settore in continua trasformazione, dove il contributo femminile oggi è sempre più essenziale.

Intervista a cura di Luca Greco (SEO Copywriter di Synesthesia)

Carla, nel corso della tua carriera sei stata addetta stampa, responsabile dell’Hospitality in Formula 1 per la Ferrari e poi Senior Marketing and Factory Experience Specialist per la Lamborghini. Ma partiamo dall’inizio: com’è nato il tuo percorso professionale nel mondo dei motori?

“Tutto è iniziato un po’ per caso. In realtà, non ero particolarmente attratta dalla Formula 1. Ero più affascinata dal mondo Ferrari per le auto da strada. È successo che un’amica, che lavorava a Maranello, sapeva che stavo pensando di cambiare lavoro e mi ha chiesto il mio CV. In quel periodo lavoravo da anni in un’azienda italo-tedesca a Padova, con un contratto a tempo indeterminato, ma sentivo il bisogno di cambiare vita e settore. Era la fine degli anni ’90, e in Italia non erano molte le aziende con un respiro internazionale. L’idea di lavorare per Ferrari mi intrigava molto.

Dopo diversi mesi dall’invio del CV, mi contattarono per una selezione. Ricordo che fu piuttosto impegnativa: una giornata intera di test psicoattitudinali, con una sessantina di candidati. Superata quella fase, ci furono prove d’inglese, valutazioni delle competenze e simulazioni su come affrontare varie situazioni. Alla fine di questo lungo processo, fui convocata per un colloquio e mi comunicarono che avevo superato brillantemente la selezione. Cercavano un’addetta stampa per la Formula 1, cosa che mi sorprese perché non l’avevo mai considerata.

Eravamo rimasti in tre. Seguirono altri colloqui, fino all’incontro con Jean Todt. Avrei lavorato a stretto contatto con lui e con il Direttore Ufficio Stampa della Gestione Sportiva. Il colloquio fu in francese, inglese e tedesco, perché cercavano qualcuno che parlasse tedesco per collaborare con Michael Schumacher. Ricordo che Todt mi chiese: “È appassionata di Formula 1? Guarda i Gran Premi?”. Risposi onestamente che non ero una grande appassionata e che conoscevo solo il Gran Premio d’Italia e quello di Montecarlo. Lui mi guardò un po’ sorpreso, ma apprezzò la sincerità.

Il colloquio andò bene, e mi chiese se fossi disposta a trasferirmi. Risposi di sì, a condizione che l’offerta economica fosse adeguata. Il responsabile HR mi fece una proposta e mi disse che mi avrebbe richiamata il sabato successivo. Pensai che fosse improbabile, visto che era il giorno del Gran Premio di Monza. Invece, quel sabato mi chiamarono per dirmi che Todt aveva accettato la mia candidatura. Ero così sorpresa che dissi: “Ci penso”. Mi risposero che non potevano tornare da Todt con quella risposta, e naturalmente accettai subito.

Il lunedì successivo firmai il contratto, proprio all’indomani del Gran Premio di Monza del ’98, dove la Ferrari fece primo e secondo posto con Michael ed Eddie (Irvine). Fu una giornata indimenticabile, e da lì è iniziata la mia avventura nel motorsport. Da quel momento in poi, ho seguito ogni Gran Premio, diventando una vera appassionata di Formula 1”.

Gestire l’Hospitality dei Vip in Formula 1 richiede tanta attenzione ai dettagli e una grande capacità organizzativa. Puoi raccontarci qualche episodio in cui hai dovuto affrontare sfide logistiche o tecniche particolarmente complesse? Come sei riuscita a garantire un’esperienza impeccabile per gli ospiti in un ambiente così dinamico e frenetico?

“Bella domanda. Non era per niente facile, perché all’epoca eravamo davvero in pochi: il mio team era composto da me e altre 2 persone e dovevamo occuparci di tutto,  sia della parte logistica, quindi della preparazione fisica dei materiali da spedire, che della parte gestionale, dal budget alle relazioni con i clienti e gli ospiti degli sponsor. Considera che c’era un gran premio ogni due settimane, ma i tempi erano strettissimi. Tutto doveva essere pronto con grande anticipo, senza margine d’errore. Tra le varie cose da fare, bisognava stare attenti a non sbagliare le spedizioni o la preparazione dei carichi, altrimenti i costi aumentavano. 

Oggi è diverso, ci sono intere squadre che si occupano di questo. Allora, invece, eravamo in pochissimi, anche nella gestione degli sponsor. E poi c’erano molti più clienti che frequentavano il Paddock Club, mentre oggi il focus è più sugli sponsor.

Se devo ricordare una sfida particolare, penso al Giappone nel 2004, quando un tifone ci colpì così duramente che la FIA decise di cancellare le qualifiche del sabato. Ricordo bene quel venerdì sera: pioggia e vento incredibili, e noi a smontare tutto – hospitality e box – per salvare l’attrezzatura. Tornammo in hotel fradici. Quando il tifone si calmò, ci ritrovammo a rimontare tutto la notte tra sabato e domenica, perché le qualifiche erano state spostate alla domenica mattina. Lavorammo fino a tarda notte per assicurarci che fosse tutto perfetto. Eravamo un team affiatato, e tutto ciò che c’era da fare lo si faceva, con tanto spirito di sacrificio”.

Nel corso della tua carriera, hai lavorato a stretto contatto con una delle figure più amate della Formula 1: Jean Todt. Che cosa hai imparato da questa esperienza?

“Incontravo Todt ogni mattina per la rassegna stampa: c’erano articoli italiani, inglesi, francesi, spagnoli e tedeschi. Arrivavo sempre molto presto in ufficio, soprattutto nei giorni di Gran Premio, quando le rassegne potevano arrivare anche a 250 pagine. Todt voleva che gli segnassi tutti i punti salienti, e la precisione era fondamentale.

Todt lavorava instancabilmente, fermandosi sempre fino a tardi. Era un uomo molto esigente, fermo nelle sue richieste, e di rado faceva complimenti espliciti: te li faceva capire in altri modi. Da lui ho imparato a cogliere le sfide – che chiamava sempre “challenge”, con il suo accento francese, – e, soprattutto, a non mollare mai. Il suo motto, condiviso con Michael, era “never give up”. Questo insegnamento mi ha segnato: continuare a perseguire l’obiettivo, perché le variabili in gioco possono sempre cambiare, fino all’ultimo secondo. Todt diceva sempre che finché la bandiera a scacchi non sventola, non si può dire di aver vinto.

Era un vero perfezionista, curava ogni dettaglio con grande attenzione. E poi c’era un lato superstizioso, che per fortuna non ho ereditato. Aveva un maglioncino di cashmere che considerava un portafortuna e lo indossava sempre, anche con 30 gradi. 

Un episodio curioso risale al 2000, dopo la vittoria del mondiale piloti a Suzuka: il Gran Premio successivo era a Kuala Lumpur e mancava solo un punto per vincere il mondiale costruttori. Io andai da Todt per proporgli di organizzare i festeggiamenti del titolo, ma lui rifiutò. Non voleva festeggiare prima della fine della gara. Così, con Domenicali, organizzammo tutto di nascosto. Mandai avanti l’ordine per il catering, feci recapitare una cassa di champagne nelle cucine del Paddock, e persino le famose parrucche rosse per tutto il team le cercammo il venerdì sera a Kuala Lumpur. Anche Montezemolo era superstizioso. Quel giorno arrivò a Kuala Lumpur senza dirlo a nessuno, guardò la gara in un hotel vicino al circuito e ci raggiunse solo negli ultimi giri.

Dire che la vita è una sfida può sembrare banale, ma nel motorsport è una grande verità. Le sfide sono costanti, e la storia di questo sport insegna proprio a non mollare mai, fino a quando la bandiera a scacchi non è sventolata. Proprio come dice Todt”.

Come racconteresti gli anni gloriosi in Ferrari, segnati dai successi della leggendaria coppia Todt-Schumacher?

“Sono stati anni favolosi, davvero irripetibili. Spero ovviamente che la Ferrari torni presto ai vertici, ma una striscia di successi lunga come quella degli anni 2000 è difficile che si ripeta. In quel periodo, la Ferrari non solo dominava in pista, ma iniziava la crescita anche sul mercato, dopo tanti anti bui, con modelli da strada straordinari. Michael aveva un legame fortissimo con Todt, quasi come un rapporto padre-figlio. Si fidava ciecamente dei suoi consigli e questo legame di fiducia si estendeva a tutta la squadra. Michael non si perdeva mai un compleanno, era sempre attento a tutti i membri del team.


Ricordo ancora il mio primo compleanno in Ferrari: mi arrivò un grande mazzo di fiori da Interflora con un bigliettino di auguri firmato “Buon compleanno. Michael Schumacher”. Pensai subito fosse uno scherzo, ma era davvero da parte sua. Questa attenzione ai dettagli era tipica di Michael. Ogni anno, a settembre, chiedeva la lista dei nominativi del team per preparare con largo anticipo i regali di Natale, e lo faceva con una delicatezza incredibile. Spesso questo lato di lui non è emerso abbastanza, ma era una persona molto sensibile.

Ho lavorato molto a stretto contatto con lui, sia al Paddock Club, che negli eventi con gli sponsor. Era un professionista impeccabile, sempre preparato e disponibile a svolgere ogni suo compito. Ma, oltre al grande campione che tutti conoscevano, c’era un uomo profondamente attento e premuroso”.

Dopo la lunga parentesi in Ferrari durata ben 18 anni, sei passata in Lamborghini con Domenicali. Che cosa è cambiato rispetto alla precedente esperienza?

“È stata un’esperienza completamente diversa, soprattutto perché non parliamo di una squadra corse: la Lamborghini non ha una squadra di Formula 1. Il mio ruolo qui era totalmente differente rispetto a quello che avevo in Ferrari, ma sempre nel mondo delle Pubbliche Relazioni e degli eventi. Stefano Domenicali mi chiamò per ideare quella che sarebbe diventata la Factory Experience. Il mio compito principale era seguire i clienti, i prospect e i numerosi ospiti, che spaziavano dalle celebrities del mondo dello sport, della musica, del cinema, fino a visite istituzionali di ministri e sceicchi arabi. Stefano Domenicali ha avuto il grande merito di aver portato quel tocco di “italianità” che ha aperto l’azienda verso l’esterno.


Con Domenicali, Lamborghini ha raggiunto un nuovo livello di visibilità: ha dato quella spinta decisiva che non solo ha fatto crescere i profitti, ma ha fatto conoscere Lamborghini in tutto il mondo. Ricordo che diceva spesso: “Il mondo conosce Lamborghini, ma non sa dove siamo. Dobbiamo far capire che siamo nel cuore della Motor Valley, dobbiamo localizzare tutto questo”. E così è stato, ha reso Sant’Agata Bolognese una parte riconosciuta di quella storia”.

Quanto è stata importante la sua determinazione in questo percorso e quali sono state le principali sfide che hai affrontato per affermarti nell’industria automobilistica?

“La determinazione è fondamentale, e mi ricollego a quello spirito che ti dicevo prima, tipico di Todt e Schumacher. Quando sono entrata in Ferrari, all’epoca, nel team di Formula 1, in pista, eravamo solo tre donne e, in quel contesto, dovevi guadagnarti la tua posizione ogni giorno. Credo che la Formula 1 sia ancora oggi un settore prevalentemente maschile, ma in quegli anni, soprattutto in Italia, questa disparità era ancora più evidente. Nei team inglesi, per esempio, si vedevano già più donne. Oggi ci sono sicuramente più ingegneri donne in pista, e anche ai muretti cominciamo a vedere delle figure femminili. Qualcosa è cambiato, ma non è ancora sufficiente. La strada da fare è ancora lunga”.

Quali suggerimenti daresti alle giovani donne che desiderano intraprendere un percorso simile al tuo nel mondo dei motori?

“Oggi le cose sono cambiate in meglio, per certi aspetti è tutto più semplice, ma la concorrenza è aumentata. Il consiglio che posso dare è di mantenere sempre una buona dose di umiltà, disponibilità e pazienza. Bisogna mettere il desiderio di imparare al primo posto. Quando sono entrata in Ferrari non ero più una junior, avevo 33 anni, ma se dovevo rimanere in ufficio fino alle dieci di sera, lo facevo. Non me ne andavo finché Todt non mi diceva di andare”.

Quanto è importante il ruolo di AWA (Automotive Women Association) in questo settore?

“Quando Monica Zanetti e Laura Tancredi mi hanno raccontato la loro idea, l’ho subito accolta con entusiasmo. Credo sia stata una grande intuizione, perché in Italia non esistono iniziative simili. Spero che, poco a poco, questa idea possa crescere e diffondere questa passione. Mi piace molto l’idea del corso per collaudatori e collaudatrici che stanno organizzando. Abbiamo davvero bisogno di progetti come questo, abbiamo bisogno di più donne nel mondo dei motori”.