Questa è la storia di Giovanni Giordano (Giordano Motorsport): meccanico, pilota, restauratore e innamorato del mondo dei motori. Dai primi giri in kart a sei anni ai podi conquistati in Formula 3, Giovanni ci racconta cosa significa crescere con una passione che non si spegne mai e perché, oggi più che mai, servono spazi accessibili dove far correre i sogni di tutte e tutti.
Intervista a cura di Luca Greco (SEO Copywriter di Synesthesia)
Giovanni, sei cresciuto nel mondo dei motori. Ti ricordi il momento esatto in cui hai capito che questa sarebbe stata la tua vita?
“L’ho capito subito. Mio padre condivide la mia stessa passione e me l’ha trasmessa fin da piccolo. Passavamo tantissimo tempo insieme in officina e sulle piste: è stato naturale, quasi istintivo innamorarmi di questo mondo. È come se lo avessi sempre avuto dentro. Se devo pensare a un momento preciso, forse è stato quando mi ha regalato il mio primo kart. Quel primo giro… me lo ricordo ancora. Ma a dire il vero, ogni momento ha avuto qualcosa di speciale. Ogni volta che sono vicino a un motore, sento che è il mio posto.“
Dai kart alla Formula 3, passando per il Campionato Italiano Salita: com’è cambiato il tuo rapporto con la guida nel tempo? Che cosa ti emoziona ancora oggi quando sei in macchina?
“Ho avuto la fortuna di provare tante auto diverse. All’inizio non ho mai fatto un campionato italiano completo, ma ho partecipato a diverse gare interregionali, più che altro per passione. Giravo appena potevo, anche se le risorse erano limitate e mio padre, che lavorava tanto, non aveva sempre il tempo di seguirmi.
Poi è arrivato il momento di scegliere: mio padre mi ha detto “Vai a Maranello, alla scuola della Ferrari”. E così ho lasciato tutto: gare, officine, trasferte. Anche seguirlo nelle sue corse è diventato impossibile. Ma appena ho compiuto 18 anni ho preso la patente, la licenza da pilota e ho ricominciato. La mia prima auto da corsa? Una 500 che andava forte! Ho iniziato a fare gare in salita, ho partecipato al Campionato Italiano Autostoriche e, con una 126, sono anche riuscito a vincere un anno.
Nel frattempo, quando potevo, continuavo a girare in pista con le Formula storiche che mio padre aveva in famiglia. Guidavo spesso il nostro 131 Abarth, un pezzo di storia, e per me era anche un modo per continuare a sentirmi parte di quel mondo. A un certo punto, però, ho sentito che era il momento di fare il salto: cercavo qualcosa che andasse davvero veloce, qualcosa che mi facesse battere il cuore.

Ho visto correre le Formula 3 e mi sono detto: “Ecco, questa è la mia macchina”. Sono riuscito a comprarne una… e qui arriva la parte incredibile. Era il giovedì prima della gara del Mugello. Vado a ritirarla da un team e il team manager, appena mi vede, mi fa: “Ma dove vai?” Gli rispondo: “Vado a correre al Mugello.” Lui sbianca e mi dice: “Tu sei matto. Mai visto uno in 30 anni di carriera fare una gara in Formula 3 senza un test”.
Alla fine si impietosisce, mi dà un meccanico e un minimo di attrezzatura – perché io non avevo nulla, solo la macchina e qualche amico. Il venerdì ero in pista al Mugello. Eravamo in 40. Il meccanico scherzava: “Mi fai camminare tutta la pit lane per niente?” Poi mi qualifico 13º. In gara arrivo 7º. Quando sono sceso dalla macchina lui mi guarda e mi dice: “Tu sei un kamikaze”. Da quel giorno per tutti sono diventato “il Kamikaze”.
Le emozioni vere però arrivano alla fine. Non quando parti: lì sei solo carico, teso. Ma quando, dopo una gara sofferta, riesci a fare quel sorpasso che ti vale il podio, magari contro ogni previsione… lì ti viene da piangere. È una cosa che non si dimentica. Non capita sempre, ma quando succede è pura magia.“
La tua carriera alterna esperienze da pilota a quelle da meccanico e restauratore. Cosa ti hanno insegnato questi diversi ruoli nel vivere il Motorsport?
“C’è una cosa che accomuna il mio lavoro da pilota e quello da meccanico: non si deve mai mollare. Mai. Nel motorsport ci sono momenti duri, quelli in cui tutto sembra andare storto. Ti si rompe il motore, hai mille problemi tecnici, ma non è che torni a casa. No. Questo venerdì, per esempio, a Vallelunga, ho praticamente distrutto mezza macchina. Il sabato, a cinque minuti prima delle qualifiche, ero ancora lì a montarla. E alla fine sono riuscito ad andare in pista.

Questa è la mentalità che mi porto dietro da sempre. E non solo io: anche i miei ragazzi, quelli che mi seguono nei weekend di gara, stanno imparando cosa vuol dire non arrendersi. Venerdì, dopo che abbiamo cambiato le bronzine all’albero motore – e non è una cosa da poco – per loro la gara era finita lì. Ma per me no. Ho detto: “Smontiamo, troviamo una soluzione”. E l’abbiamo trovata. Siamo riusciti a fare qualifiche, gara 1 e gara 2.
È un insegnamento che vale per me, ma anche per chi lavora con me. Le vere lezioni di vita e di lavoro sono queste. Non stanno scritte nei manuali, le impari in officina, sotto una macchina smontata, in pista a rincorrere una qualifica. E le impari solo se ci credi davvero.“
Molti sognano di fare della propria passione un lavoro. Tu ci sei riuscito. Ma cosa significa davvero trasformare una vocazione in una professione, ogni giorno?

“Vivere di una passione così forte significa inevitabilmente togliere tempo a tutto il resto: alla famiglia, agli affetti, agli amici. A tutto ciò che ti è caro. È un prezzo alto, e per questo devi essere fortunato. Fortunato ad avere accanto persone che ci credono con te, che credono nel tuo lavoro e in ciò che ti fa battere il cuore. Perché il tempo che dai a questo mestiere non è poco, e da qualche parte lo devi prendere. E spesso lo prendi proprio da lì, da chi ami. Certo, è anche bellissimo. Perché io non sento di lavorare. Faccio quello che mi piace e lo faccio con il cuore. Ma è proprio questo che ti ruba tutto il resto. È un paradosso: ti realizzi mentre rinunci. Vedi, c’è chi aspetta con ansia la fine della giornata per tornare a casa, per godersi una vacanza, una cena, un po’ di tempo con i propri cari. Io no. Io sto lì, nel mio mondo, a fare quello che amo. È una scelta, sì. Una di quelle che ti arricchiscono e ti tolgono qualcosa allo stesso tempo. E che proprio per questo ti segnano profondamente.“
In AWA ci battiamo per l’inclusione nel mondo del Motorsport, che è ancora troppo spesso percepito come “maschile” o elitario. Secondo te, cosa manca oggi per rendere questo settore più aperto, accessibile e inclusivo per le donne e le nuove generazioni?
“Penso che le donne appassionate di Motorsport non siano ancora tante, almeno nei numeri. Ho conosciuto ragazze in pista, in officina, nei box. Persone capaci, curiose, appassionate. Certo, se guardiamo le statistiche, siamo ancora lontani da una vera parità. Ma qualcosa si sta muovendo. Ci sono nuove realtà come la F1 Academy, oppure i corsi per tecnici e restauratori d’auto, che iniziano finalmente a parlare anche alle donne. Serve solo far conoscere di più questo settore.
E qui la formazione può fare la differenza perché spesso il punto non è la mancanza di interesse, ma la mancanza di opportunità. Se non sai che esiste una possibilità, come fai a sapere che può diventare la tua strada? Bisognerebbe partire da piccoli, far conoscere il Motorsport anche ai bambini e alle bambine. Creare curiosità, occasioni, percorsi. In Italia, purtroppo, oggi se ne parla ancora troppo poco. Ma io spero davvero che le cose cambino. Perché questo è un mondo che può essere anche loro. E ne guadagnerebbero tutti.“
Per concludere, se potessi tornare al box di quel primo kart a 6 anni e dire una frase a quel bambino, cosa gli diresti?
“Gli direi di non mollare mai. Di crederci sempre, anche quando tutto sembra andare storto. Perché cadere capita, è inevitabile. Ma la differenza la fa quello che fai dopo: rialzarti, stringere i denti e andare avanti.“